sabato 9 febbraio 2008

65daysofstatic - "One Time For All Time" - Monotreme 2005

Un servizio fotografico sul quotidiano. Anzi, e meglio, istantanee. Scatti nitidi che chiudono su un primo piano, un volto estraneo, un sorriso, un auto che passa, un palazzo avvolto da raggi solari, un anziano seduto su una panchina, ragazzi che si baciano ad un angolo di strada, un cane che rincorre i piccioni in una piazza, nuvole, occhi, capelli, insegne al neon. Sullo sfondo la vita che scorre via, che sbiadisce, sfuocata, mentre "One Time For All Time" prende in ostaggio il lettore CD e non ne vuol sapere di lasciarlo andare. Tu sorseggi da un bicchiere onto e lanci sguardi oltre la finestra, poi fissi la libreria, ed il divano che ti corteggia il culo. E pensi ai Mogwai che alzano il volume, che appesantiscono le chitarre e flirtano con sperimentazioni e noise, intrecciando ritmiche ora funeste, ora impercettibili coperte da un tappeto pianistico dal mood malinconico ma leggero, solare e grigio in contemporanea. E tu che fai? Seduto, osservi passare davanti al naso, sfiorandoti il cuore, il silenzio e l'etereo e positivo senso di abbandono che ti porta altrove, a contatto con emozioni semplici che delinenao il tuo umore fragile. Sorseggi ancora, ti volti verso il lettore attratto da un crescendo sonoro, da infiltrazioni elettroniche e da scariche elettriche che ti scuotono e si controppongono alla grazia precedente alzando il tuo tasso andrenalinico. Ma il tuo culo è sempre lì sul divano, mentre continui a bere e ti accorgi che la sequenza di immagini diventa inarrestabile fino a quando vedi te stesso in una di quelle fotografie e realizzi che sei anche tu parte del tutto, che sei parte di un mondo che a stento ami, ma di cui non riesci a farne a meno.

Sito ufficiale

Recensione già pubblicata su Hardsounds.it

giovedì 7 febbraio 2008

Into The Wild - di Sean Penn. Con Emile Hirsch, William Hart, Marcia Gay Harden, Vince Vaughn, Jena Malone, Hal Holbrook.
Colore 148 min. Produzione Usa.

La breve vita di Christopher McCandless aka Alex Supertramp, liberamente tratto dal libro "Nelle Terre Estreme" di Jon Krakauer, il quale a 22 anni abbandona una vita fatta di agi ed un futuro già definito scegliendo di vivere una esistenza al limite,
quasi primordiale a contatto con la natura. Un road movie, un viaggio con una meta ben precisa e che conta anche più del viaggio stesso che si manifesta attraverso un soggetto assai rischioso che Penn riesce a tenere a bada senza mai scadere nel sensazionalismo e nella direzione fine a sé stessa. Come in ogni rischio di tanto in tanto si sfiora l'azzardo, ma Penn non si innamora mai del personaggio, nè degli spettacolari paesaggi che fanno da sfondo alla narrazione. Alex, pur testardo e disposto a sopportare qualsiasi sacrificio è sempre pervaso dal dubbio, in alcuni frangenti debole, fino al tentativo ultimo di tornare indietro quando le condizioni di vita che si crea in Alaska diventano ormai privative. Una viaggio moderno nella solitudine di un ragazzo che ne fa una ragione di vita lasciandosi dietro tutto il carrozzone di personaggi che incontra sulla strada e che lo ha amato(aulico il confidare sempre nella bontà degli estranei piuttosto che in persone dello stesso sangue), una solitudine ancora più ricercata lontano da quei genitori che fanno involontariamente da incipit alla sua "fuga", così devastanti per i loro figli, nascosti dietro la solita fotografia di famiglia apparentemente perfetta. Questo mentre la voce off della sorella mette in risalto i pensieri del diario di Alex, le ipotesi della nasciata del suo idealismo, le contraddizioni, le paure, le gioie, e mentre le canzoni di Eddie Vedder(azzeccatissima la scelta di sottotitolarne i testi in italiano) accampagnano un corollario di luoghi ed immagini mozzafiato. Un film itinerante e poetico, inquieto, metafisico verso quella libertà ideale e pura che l'uomo moderno ha smarrito da tempo. Molto bravo Hirsch, ma il segno lo lascia il buon Sean, ormai tra i pochi a credere ancora che il cinema sia "la concezione del mondo e non semplicemente spettacolo" come soleva affermare Majakovskij.

mercoledì 6 febbraio 2008

Il Padrino - di Francis Ford Coppola. Con Marlon Brando, Al Pacino, Robert Duvall, James Caan, John Cazale, Talia Shire, Sterling Hayden. Colore 175 min. Produzione Usa 1972.

Film tratto dal romanzo omonimo di Mario Puzo(che a discapito di molte credenze non è tratto da storie vere), a struttura patriarcale e mafia inquadrata come legata al concetto di onore e "giustizia" interna seppur nella sua spietata realtà. Ma non è solo un film sulla mafia, anzi, da questo punto partono tutti i temi cari a Coppola come la fede ed il tradimento, la solitudine dell'uomo: Vito Corleone(Marlon Brando), che dinanzi allo scorrere del tempo e al cambiamento fisiologico cui è soggetta la sua "famiglia" non si riconosce più in quel mondo che aveva contribuito a costruire(tema affrontato ancora una volta da Coppola in "Apocalypse Now". Ricordate il colonnello Kurtz?). Onore, la parola chiave della psicologia di Don Vito, lo stesso onore che lo porterà a rifiutare l'appoggio economico alla famiglia Tartaglia per iniziare le gestione del traffico di droga(considerata, paradossalmente, da Don Vito come "roba schifosa" capace di portare morte a chi ne fa uso). Un rifiuto che scatenerà una guerra tra le famiglie ed una spirale di morte infinita. Michael(Pacino), decorato di guerra "estraneo" alla condotta dei Corleone fino ad allora prenderà le redini della famiglia. Ma la sua guida, ancora più spietata, produrrà altri cadaveri "eccellenti". Ambientato negli anni '40, Coppola sceglie una narrazione che si discosta completamente dai film di genere e dirige un film sulla mafia trapiantata in America come una rappresentazione teatrale. Infatti, il film gira tutto intorno alle atmosfere ed alle luci(costantemente in contrasto), ed alle interpretazioni. Nessun gesto tecnico ne innovazioni ma solo una telecamera fissa che riprende lo svolgimento e lo sviluppo della trama. Grande cura dei dettagli, interpretazioni memorabili, psicologia dei personaggi che meriterebbe una trattazione a parte ed una struttura d'insieme che si muove compatta e con determinazione senza mai sfilacciarsi per strada "calpestando" costantemente lo spettatore senza lasciargli tregua. Monumentale la fotografia di Gordon Willis, musiche di Nino Rota. Tre Oscar: film, sceneggiatura e miglior attore protagonista(Brando). Capolavoro assoluto.

martedì 5 febbraio 2008

Rischio di essere spaventosamente di parte se mi metto a parlare dei (The) Cure, ma credo che oltre ad essere un grande brano "Pictures Of You" abbia anche uno dei testi più intensi mai scritti da Smith. Il video in questione è del 1991, registrato a Wembley. "Pictures Of You" è contenuto in "Disintegration", disco uscito nel 1989.



Questo il testo:

I've been looking so long at these pictures of you
That I almost believe that they're real
I've been living so long with my pictures of you
That I almost believe that the pictures are
All I can feel

Remembering
You standing quiet in the rain
As I ran to your heart to be near
And we kissed as the sky fell in
Holding you close
How I always held close in your fear
Remembering
You running soft through the night
You were bigger and brighter and wider than snow
And screamed at the make-believe
Screamed at the sky
And you finally found all your courage
To let it all go

Remembering
You fallen into my arms
Crying for the death of your heart
You were stone white
So delicate
Lost in the cold
You were always so lost in the dark
Remembering
You how you used to be
Slow drowned
You were angels
So much more than everything
Hold for the last time then slip away quietly
Open my eyes
But I never see anything

If only I'd thought of the right words
I could have held on to your heart
If only I'd thought of the right words
I wouldn't be breaking apart
All my pictures of you

Looking so long at these pictures of you
But I never hold on to your heart
Looking so long for the words to be true
But always just breaking apart
My pictures of you

There was nothing in the world
That I ever wanted more
Than to feel you deep in my heart
There was nothing in the world
That I ever wanted more
Than to never feel the breaking apart
All my pictures of you


The Cure - Sito ufficiale

domenica 3 febbraio 2008

La 25a Ora - di Spike Lee. Con Eward Norton, Philip Seymour Hoffman, Anna Paquin, Rosario Dawson, Barry Pepper. Colore 134 min. Produzione Usa 2002.

Uno Spike Lee malinconico ed amaro come non me lo sarei mai aspettato. E arrabbiato, come sempre. Ma una rabbia che si sottrae alla telecamera e si nasconde dietro ogni inquadratura, primo piano o oggetto che sia. Spike mette in scena il dolore, la consapevolezza del proprio agire e soprattutto il rimpianto(una parola mai detta, un sentimento inespresso, giudicare male le persone che ci circondano e che ci amano), filmando un giorno intero, 24 ore prima che Monty(Norton), un pusher dell’Upper East Side delle Grande Mela beccato dalla narcotici a causa di una soffiata finisca in carcere. Una pellicola a tratti commovente che si dipana lenta, avvolta in pause brevi dove trovano spazio immagini di una New York ferita, sanguinante(memorabile fin dai titoli iniziali che si incrociano di continuo con i fari ora al posto delle Torri Gemelle; memorabile come l’immagine di una NY notturna alla fine dei titoli, quasi un fermo-immagine che ridona quella poetica urbana tipica della metropoli sottratta da quella tragedia), in cui tutti i protagonisti cadono dando sfogo alle loro deviazioni, ai loro sensi di colpa. Fino alla conclusione, fino alla 25ª ora, quella in cui Monty vede una nuova strada, la via che porta verso la redenzione, una nuova vita che il padre adottivo gli prospetta mentre lo accompagna al carcere. Una vita tutta nuova, stato, lavoro ed amicizie ma non l’amore(Naturelle lo raggiunge, unico contatto con il recente passato). Il cineasta newyorkese riesce a dare spessore alla materia e ad integrare la sua arte del raccontare, oltre a quanto rappresentato, grazie a disinvolti movimenti di macchina che scivolano via lenti ed allucinati su carrelli trasportando un volto o un corpo nel momento del passaggio dal peccato al dolore, all’incoscienza o conoscenza apparente che si manifestano nei momenti chiave del film. Una sorta di isolamento post-reato, un momento in cui il personaggio prende/non prende atto del proprio sbandamento. Un film con impercettibili sbavature, un film sulla ricerca del tempo perduto che inizia con Monty che salva un cane dalla strada, e termina con Monty che attraverso la strada cerca una via salvifica. In mezzo l’angosciante, metaforico “viaggio” che parte dal già divenuto leggendario monologo allo specchio di Monty sulle contraddizioni politico-razziali degli Usa, e finisce con gli stessi personaggi dileggiati nel monologo mentre gli sorridono e lo salutano(neri, pakistani etc. Ma mancano i politici. Ed è tutto un programma).