venerdì 11 gennaio 2008

Heinrich Boll - Croce senza amore - 332 pg. - 1947

Storia dei fratelli Bachem che attraversa la follia hitleriana dalla sua nascita all'arrivo dei carriarmati russi in terra tedesca. Hans crede nel nazismo, fa carriera e diventa tenente. Christopher viene mandato al fronte contro la sua volontà conscio che quello che sta accadendo è pazzia pura. In mezzo la madre dei due, enigmatica e dolce, forte e debole allo stesso tempo la quale, come Chirstopher, non crede nell'apparente "bontà" nazionalista della Germania di allora. Sullo sfondo una lotta estenuante sul piano sociale e morale tra le due croci, quella cattolica e quella uncinata. Boll è un reduce della seconda guerra mondiale ed un cattolico. Scrive pagine dolorose contro l'inesistenza della Chiesa durante quel tempo scellerato, allo stesso modo dell'insensatezza della vita da soldato lui che l'ha vissuta sulla propria pelle. Da qui l'ambiguo titolo di un libro pubblicato solo 2002, anni dopo la morte dello scrittore, Nobel nel 1971, rifiutato a cavallo della fine della guerra da un editore ancora troppo servile. E' un libro non del tutto maturo. Lo stile è ancora acerbo ma ancora "caldo", scritto di getto poco dopo la fine del conflitto che caratterizza personaggi angosciati, tormentati da quella sorta di conflitto tra Cristianesimo e Nazismo che ripercorre tutto il libro, avvolti nella sofferenza ma non incapaci di cogliere attimi di estrema dolcezza e lucidità dei quali Boll tratteggia una psicologia profonda. Pagine importnati che di tanto in tanto fanno sentire sulla lettura tutto il loro peso morale, ma assolutamente funzionali all'opera. Una autore alla prima prova che racconta dall'interno un periodo tra i più neri della storia dell'umanità. Pubblicato molto tardi, ma ancora terribilmente attuale.

giovedì 10 gennaio 2008

Neronoia - "Un mondo in me" - Eibon Records - 2006

Dalla collaborazione tra Canaan e Colloquio nascono i Neronoia, progetto che vede coinvolti membri di entrambe le band, e volto ad una proposta definibile chiaramente dark-wave, con un approccio compositivo sperimentale ed elettronico. "Un Mondo In Me" è un disco introspettivo e malinconico, una lunga trama sonora soffusa, intima, che ti sbatte delicatamente sul muso il senso di vuoto che alberga nella coscienza di chi ha a che fare continuamente con sentimenti come l'abbandono, la solitudine, l'empatia e l'incomprensione, e si riscopre ogni volta estraneo alla piega effimera intrapresa dalla quotidianetà. Ritmica blanda, melodie dilatate, tappeti di tastiere fiancheggiate da arpeggi di chitarra fluidi, a dir poco liquidi, accenni di ambient, e la voce di Gianni che racconta, quasi sussurrando, un diario personale fatto di pensieri e parole che rimandano alla condizione umana dell'essere sensibile. Un discanto introverso e grigio che fluttua leggero attraverso le correnti della rassegnazione, dell'accettazione di uno stato delle cose che non smette mai di tormentare. Un filtro che scompone i processi emotivi in piccoli, fragili frammenti pronti per essere assorbiti, e poi ricomposti sotto forma di espressività. Lancinanti. Disperati. Spietati. Come la produzione del disco, a dir poco sbiadita, rarefatta, tendente quasi al silenzio, da camera. Altro processo che enfatizza la condizione malinconica di un lavoro che si appresta a diventare un cult, e non solo per quanto concerne la scena nostrana, come già funziona per gli stessi immensi Canaan, e per i Colloquio, rappresentati come meglio non si poteva dalle rispettivie intuizioni, dalle rispettive sensazioni, dallo stesso modo di intendere la comunicazione del proprio disagio interiore. Quello che prende in ostaggio le dieci tracce titolate semplicemente con numerazione romana, e che come un urlo silenzioso destinato ad implodere fa strage di sè stesso. Si, "Un Mondo In Me", per davvero. Livido, trasognato, ferito, dove i giorni sembrano durare in eterno, condannato a vivere per sempre col rimpianto. Un mondo a parte che non conosce pace, ma che sa perfettamente cos'è il dolore. Già riuscirne a parlare è faticoso, e farlo senza autocommiserazione è un'impresa; tuttavia, farne una forma d'arte come nel caso dei Neronoia, invece, è il passo successivo che conduce alla Conoscenza perchè solo attraverso il dolore riesci a capire veramente chi sei. Ma neanche...

Recensione già pubblicata su Hardsounds.it
Mystic River - di Clint Eastwood. Con Sean Penn, Tim Robbins, Kevin Bacon, Laurence Fishburne. Colore 137 min. Produzione Usa 2003.

L’America non ha un padre. Fin troppe volte si è dato ascolto ai consigli ad ai richiami dello zio Sam. E fin troppe volte, i padri che dovrebbero essere tali annullano i figli nel nome(indiretto) del più annichilente atto di violenza: quella psichica come conseguenza di quella fisica: i tre bambini della storia che sfuggiti ai lupi, diventati grandi, si trasformano loro stessi in lupi. Mastro Eastwood, forse il cineasta più credibile degli States ancora in vena di girare film invece che fare semplicemente cinema, ha tratto dal libro “La morte non dimentica” di Tennis Lehane(grazie alla entusiasmante sceneggiatura di Brian Helgeland, già autore di quella di “L.A. Confidential”) una pellicola agghiacciante in fatto di tema sia sociale, sia morale. Avvalendosi di un cast eccezionale, Penn in stato perenne di grazie vincitore dell’Oscar quale migliore attore protagonista, ed un altrettanto immenso Robbins anch’egli vincitore della statuetta ma come migliore interprete non protagonista, Clint ritrae la vita di un quartiere operaio di Boston ed il dramma comune che lo attanaglia attraverso il vincolo che lega fin da ragazzini tre personaggi i quali, dopo il rapimento di uno dei tre ad opera di due ambigui “poliziotti” che lo violenteranno sessualmente, si ritroveranno adulti e distanti venticinque anni dopo, pur vivendo nella stessa città, ognuno con il proprio mestiere, le proprie paure ed insicurezze. A riportarli ancora in contatto un altro episodio drammatico: l’omicidio della figlia di Jimmy(Penn). “Mystic River” è un continuo fluttuare di emozioni. E’ il ritratto severo di un mondo che immerso nel dubbio si lascia trascinare nel baratro della vendetta per espiare il proprio dolore(e la propria colpa). Robbins-Dave è una sorta di cacciatore di pedofili, Jimmy-Penn ucciderà Dave sospettato di essere l’omicida della figlia, Sean-Bacon che da tutore della legge sembra essere al di sopra delle parti, nel finale, con un gesto ambiguo quanto esplicativo, proverà ad uccidere Jimmy e, forse, se stesso perché, come racconta a Jimmy , quel giorno quando rapirono Dave, anche loro subirono indirettamente le stesse violenze. E’ la morte, dunque, che cancella tutto, dolore e dubbi compresi? Ed in effetti, dopo la perdita dell’innocenza, sembra sia quello l’unico modo, paradossalmente, per vivere senza paura. Clint non risparmia neanche il cattolicesimo. Come in tutto il film, non prende nessuna posizione, né la parte di nessuno dei suoi personaggi. Racconta, e dicono molto più di mille parole due inequivocabili scene: il primo piano dell’anello di uno dei due poliziotti che rapiscono Dave con una croce in bella mostra all’inizio del film, e l’enorme tatuaggio di Jimmy sulla schiena, sempre una croce, nel lungo epilogo. Dopo il padre assente de “Un mondo perfetto”, e dopo i padri ladri-assassini de “Gli spietati”, un altro capolavoro sul peccato senza possibilità di redenzione, sulla figura di chi dovrebbe guidare ed essere un punto di riferimento ma che, ciclicamente, fallisce drammaticamente.

E’ questo mondo, tutto sommato, a non avere un padre.

mercoledì 9 gennaio 2008

Fino alla fine del mondo - di Wim Wenders. ConWilliam Hurt, Sam Neil, Max Von Sydow, Jeanne Moreau, Solveig Dommartin. Colore, 158 minuti. Produzione Germania/Francia/Australia 1991.

Il mondo attraverso un viaggio metafisico, le persone(familiari) lontane e separate dalla distanza dei continenti, la fuga(da se stessi?), la meta(ritrovarsi), le immagini(futuristiche), i sogni(sintetici ma non antitesi dell’onirismo classico), integrazione(sconcertante) fra culture agli antipodi, entrambe ed in modi differenti assuefatte dalla tecnologia(tranne l’eccezione) nei momenti che precedono la caduta di un satellite per le comunicazioni satellitari nella pellicola più controversa del cineasta tedesco. Un road movie ridondante di elementi che interagiscono tre essi per accumulo di materiale e non con la fluidità voluta da molti critici che hanno etichettato il film come “confusionario”. Una interazione, invece, affascinante proprio per il modo in cui è stato sceneggiato/montato: Wenders rende giustizia all’incontenibile incompiutezza dell’animo umano, al senso di smarrimento della coscienza dell’uomo alle porte del nuovo millennio(la storia è ambientata nel 1999) ed alla difficoltà delle comunicazione attraverso la parola ormai soppiantata dalle immagini e dalla tecnologia, con mini-storie a sé stanti ambientate in altrettanti luoghi distanti l’uno dagli altri, ma legate da personaggi alla ricerca di un unico ricordo da registrare(straziante in tal senso il ricordo come entità presente, e non da ricercare nel tempo andato) e che potrebbe ridare la “vista cerebrale” a chi il presente non ha potuto vederlo. Un mondo nuovo che condurrà alla morte la Moreau(per l’apparente gioia o per non avere saputo reggere l’impatto col mondo odierno?), madre cieca di Trevor(Hurt), il quale si trascina per i continenti alla ricerca di immagini da registrare grazie ad un congegno digitale ideato e da consegnare al padre, Dr. McPhee(Von Sydow), che ha costruito un laboratorio ipertecnologico nel deserto australiano nel bel mezzo di una comunità di aborigeni e che trasmetterà al cervello della moglie per ridarle la “vista”. Il viaggio di Trevor è contornato da diverse altre figure: dalla compagna di viaggio Claire(Dommartin, moglie di Wenders), e di lui innamorata, dal detective super accessoriato che li insegue dappertutto al soldo del convivente(Neil) di Claire, da un agente segreto della Cia che tenta di impossessarsi del congegno “cattura-immagini”, e da una carovana stravagante di altri soggetti. Sullo sfondo, le metropoli e le grandi città attraversate dai personaggi: Venezia, Mosca, Lisbona, Tokyo, Berlino fungono da tappe sfuggevoli senza mai dichiararne l’effettivo fascino ma che rendono ancora meglio l’idea dello smarrimento dell’uomo moderno afflitto dalla sua stessa idea della (fanta)scienza. Certo i punti negativi non mancano: affiora a volte la sensazione di troppi finali, di qualche spunto solo accennato e mai sviluppato, ma l’innumerevole quantità di cose che Wenders affronta(senza compiacimento alcuno) , le immagini ad altissima risoluzione, i differenti generi trattati, una colonna sonora tra le migliori ascoltate negli ultimi anni(U2, Talking Head, Nina Simone…), li affonda in pochi attimi ed affiorano solo a mente fredda come in questo preciso momento. Un’unica chiave di lettura del film, dopo tutto quasi due ore e mezza di proiezione, potrebbe essere la frase dell’aborigeno che nel finale commenta lo smarrimento di Trevor nelle lande desertiche ed al quale aveva consigliato di dormirci per espiare il dolore grazie all’aiuto degli spiriti dei suoi antenati: “….ma è difficile trovare un uomo perduto nel labirinto della sua anima”. Ecco l’uomo, anche se spinto da lodevoli propositi, che non riesce ad afferrare il senso della sua esistenza dinanzi al dolore e dinanzi ad un mondo capace, almeno inizialmente, di dare speranza attraverso la scienza “digitale”. Wenders anticipa i tempi e lo fa in modo oggi comprensibile con la “confusione” che alcuni hanno visto in questa sua opera al tempo. La sua “confusione”, visionaria ma frammentata, fredda ma ispirata, è la confusione del nostro tempo attuale.

lunedì 7 gennaio 2008

Hall Of Mirrors - "Reflections On Black" - Silentes Rec. - 2007

Se il progetto Amon/Nimh viveva di sangue e terra lanciate alla ricerca dell'indefinibile attraverso il CD 'Sator', la nuova forma artistica del duo Giuseppe Verticchio/Andrea Marutti assume sembianze meno misteriche e relativistiche per addentrarsi nell'oscurità e scrutarne il senso. Così, lo sprofondare di 'Sator' nelle viscere della creazione lascia il posto alla tentazione di dare un nome alle tenebre non per carpirne i segreti, ma per chiamarla letteralmente per nome. Una riflessione in confidenza con un interlocutore ostico, secolarmente prodigo di mutismo e così divertito dal celare un immaginario perlopiù inesistente ma tremendamente rilevante. Questo è a mio avviso lo scopo di 'Reflections On Black', nuovo lavoro che esce a distanza di poco tempo dal precedente connubio artistico. E' il tentativo di dare parola ad un concetto privo di materia, senza corpo, ma in grado di condizionare la vita pur non esistendo. L'oscurità è prima di tutto una proiezione di noi stessi dentro cui raffiguriamo tutte le paure, la stanchezza di esistere e, soprattutto, diversamente, un luogo dove rifugiarsi, curarsi, lontano dalle insidie della modernità. Ed i quattro movimenti presenti nel disco la stratificano, la sezionano fino a farla diventare un unicum filosofico finale che non pretende di dare né cerca risposte, solo essere compreso. La strumentazione è tipica del genere, via di synth, montaggio audio, effetti, tapes etc. con una inaspettata, malinconica chiusura, "Recovery", affidata principalmente alla chitarra elettrica: forse il momento meno ispirato - comunque penetrante - a causa di un ripetersi perpetuo di arpeggi che alla lunga non scuote come nei precedenti movimenti, quelle mete obbligate così intense e tattili. Come sentirsele addosso, come se cercassero di entrarti sotto pelle, farti sentire l'oscurità in tutta la sua dimensione mentre dispensa velate ma percettibili melodie che si struggono da sole all'inverosimile. Non un lamento, ma un canto. Non disperato: consapevole della sua essenza. Gli Hall Of Mirrors tracciano le condizioni per arrivare ad un Nirvana a rovescio dove l'illuminazione non la si raggiunge distaccandosi dalle cose del mondo terreno, ma introiettandosele. Perché il buio aiuta a vedere le cose come realmente sono.

Il peso specifico dell'oscurità.


Recensione già pubblicata su Hardsounds.it