lunedì 10 giugno 2019

Bohemian Rhapsody - di Bryan Singer. Con Rami Malek, Lucy Boynton, Gwilym Lee, Ben Hardy. Produzione Usa/Gran Bretagna 2018 - 134 minuti.
Senza mezzi termini, film bruttino su cui incide come una pietra tombale la post-produzione di May e Taylor (Deacon si è apertamente disassociato dal risultato finale. A dirla tutta si è disassociato da tutto quanto sono diventati i Queen dopo la scomparsa di Freddie). Biopic stracolmdo di difetti, ripulito da tutti gli spasmi narrativi dolorosi e scorretti di cui la vita di Mercury era piena, per fare attraversare incolume la pellicola diretta verso la strada degli Oscar. Didascalico, non afferra pienamente la realtà controversa (?) in cui erano immersi band e frontman, servendo sul piatto del grande pubblico i clichè pubblici comunque già noti a tutti. Inoltre, i fatti vengono raccontati in maniera non lineare per provare a dare continuità alla narrazione, è già in questo si denota una certa disonestà intellettuale, ed un piacere opportunistico che mira soltanto a lucidare la pellicola per renderla più fruibile. Perchè se è vero che alcune licenze temporali possono anche giovare in alcuni casi specifici, in Bohemian Rhapsody non è passabile vedere Mercury già cosciente della malattia prima ancora di salire sul palco del Live Aid (ne verrà a conoscenza solo nel 1987). A proposito del finale, ci si chiede a cosa possano servire gli storici 20 minuti della prestazione a Wembley completamente "rifatti": una mostruosità filmica con pochi precedenti. In poche parole, Freddie era solo questo? La sua omosessualità trattata con pudica osservazione (guai ad approfondire il tema); gli altri membri della band dei santi che volevano esclusivamente il bene del gruppo; rapporti con la famiglia ai margini; storia d'amore con la fidanzata (ben sei anni) mai analizzata. Resta la prestazione di Malek il quale in più di una occasione rischia di scadere nel macchiettismo, ma che nel complesso risulta credibile. E di cosenguenza restano la musica e la personalità difficile quanto debole di Freddie. Film mediocre che risente inevitabilmente dei problemi di regia (Singer non l'ha diretto completamente), e delle sforbiciate dei due attuali Queen che emergono come i veri leader (ma dai...) della band.

martedì 19 luglio 2016

                            
Confidenza con la notte
Io sono uno che ha confidenza con la notte.
Ho fatto nella pioggia la strada avanti e indietro.
Ho oltrepassato l’ultima luce della città.
Sono andato a frugare giù nel vicolo più tetro.
Ho incontrato la guardia nel suo giro
Ed ho abbassato gli occhi, per non spiegare.
Io ho trattenuto il passo e il mio respiro
Quando da molto lontano un grido strozzato
Giungeva oltre le case da un’altra strada,
Ma non per richiamarmi o dirmi un commiato;
E ancora più lontano, a un’incredibile altezza,
Sullo sfondo del cielo un orologio illuminato
Proclamava che il tempo non era giusto, né errato.
Io sono uno che ha confidenza con la notte.

     Robert Frost

domenica 31 luglio 2011

My Dying Bride - Evinta - Peaceville Records - 2011

Vecchi brani rivisti e riarrangiati in questo doppio CD. Ma non è sufficiente a discrevere 'Evinta' perchè, in pratica, è un nuovo album a tutti gli effetti. Quelle proposte sono versioni talmente elaborate e stilisticamente diverse rispetto alle originali che i brani suonano assolutamente come nuovi. Un lavoro enorme di rielaborazione che trasforma i classici della band in suite orchestrali, sinfoniche, in cui sono gli strumenti acustici a tracciarne le melodie ed a strutturarli come operette classiche. Il discanto di Aaron e l'ugola di un soprano, poi, si alternano di composizione in composizione enfatizzando il senso drammatico di un disco autunnale e malinconico come da sempre i My Dying Bride ci hanno abituati, e nell'occasione ancora più profondo, intenso. Questo grazie anche alla partecipazione all'opera di Johnny Maudling - Bal Sagoth - il quale si occupa dei nuovi arrangiamenti badando al necessario, senza strafare, calandosi nell'universo emozionale della band inglese con umiltà e partecipazione. Un lavoro da camera, quindi, che accosta i doom-deathster a realtà consolidate come Dark Sanctuary ed Elend, ma personale, introspettivo, in cui è sempre evidente la loro poetica desolata e dolorante, romantica e decadente. Gradazioni ambient fanno il resto, coprendo 'Evinta' con un velo d'inquietudine quando le aperture orchestrali scemano verso la dilatazione sonora prima, nel silenzio dopo. Per diventare, infine, grandiosamente arte.

venerdì 21 gennaio 2011

Canaan - "Contro.Luce" - Eibon Records - 2011

"Questa polvere di vita
che mi riempie la gola
è specchio di un'anima
invisa a sè stessa
che si guarda sbagliare
senza mai imparare..."


Il sesto album in studio dei Canaan conferma la vena stilistica della band, nonchè quella emotiva. Dark-wave, ambient e vagiti elettronici al servizio dell'introspezione pura. Connubio che se apparentemente potrebbe indurre a pensare al solito indigesto polpettone triste e malinconico, i fatti invece dimostrano che ci troviamo al cospetto dell'ennesimo capolavoro della band lombarda. Dopo l'esaltante esperienza con Neronoia - Un Mondo In Me, e Il Rumore Delle Cose - dopo il bellissimo The Unsaid Words, 'Contro.Luce' si staglia sopra ogni altra produzione di Berchi e soci e diventa indubbiamente il manifesto definitivo della band. Non perchè non ci siano margini per progredire, anzi, ma allo stato delle cose riesce difficile pensare si possa fare meglio data l'eccellenza dell'album in questione: maturo e sperimentale, coacervo di umori e sensazioni infinite, oscuro e malato, oppressivo e doloroso, ma di pari passo cedevole, indulgente, a tratti delicato, poetico. Ben ventuno brani che scorrono via senza arrecare affanni tra ritmiche dilatate e lente, suoni filtrati, effetti, innesti etnici di matrice mediorientale, tappeti ambient, orchestrazioni - della Universal Choas Orchestra - melodie che ti si piantano dentro e crescono man mano con l'andare del brano, per poi sbocciare definitivamente...sempre dentro. Riflessivo e conturbante, in solenne e perpetuo chiaroscuro, 'Contro.Luce' è completamente cantato in italiano e soltanto da Mauro il quale riesce a trasmettere il colore ed il calore necessari ad ogni testo, in ogni contesto. Disco perfetto? No, ci mancherebbe, ma se lo fosse probabilmente non sarebbe qualitativamente immenso come dimostra di essere: qui è fondamentale anche il fascino dell'imperfezione - poche, pochissime - segno che nel suo incedere maestoso l'album trasmette dignità anche ai difetti. Virtù che solo i più grandi possiedono, ed i Canaan ormai grandi lo sono per davvero.

"Quando chiudere gli occhi somiglia un po' a morire
Quando chiudere gli occhi vuol dire svanire
Deve esserci un modo per togliere le spine
Deve esserci un modo per spegnere il dolore nel cuore
senza farlo sanguinare

Dal profondo di un cuore in rovina
si ritorna finalmente a respirare
l'aria pura del mattino"

Un divenire di emozioni senza fine.

lunedì 3 gennaio 2011

sabato 1 gennaio 2011

Agalloch - "Marrow Of The Spirit" - 2010 - Profound Lore Records.

Ancora una variazione sul tema per il nuovo album degli Agalloch. Ancora un disco di carattere, pregno di personalità ed emotivamente strabordante. Se 'Marrow Of The Spirit' si forgia di quella malinconica vena di fondo presente in tutti i lavori della band di Portland, è anche vero che l'album fa registrare un indurimento del suono, ed un ritorno in parte al black metal delle prime apparizioni sulla scena. Questo senza mai perdere di vista le strade intraprese fino all'eccezionale 'Ashes Agaisnt The Grain', quindi sfumature folk, brevi accenni gothic e quotati struggimenti strumentali tipicamente post-rock. Una sorta di rimescolamento di carte in cui convivono le varie anime del gruppo in un'unica opera, questo in occasione del cambio di etichetta e dell'ingresso in formazione di un nuovo drummer, Aesop Dekker, il quale rinvigorisce la ritmica dando il giusto apporto dinamico al lavoro. Meno dilatazioni, meno progressioni e stile più definito, quindi, e brani di conseguenza che mirano più all'aspetto evocativo, emozionale, che a quello "sperimentale". Poco male in quanto il risultato finale non cambia affatto: 'Marrow Of The Spirit' è un concentrato di violenta spiritualità, colonna sonora di tormentate sere invernali trascorse alle prese con sè stessi. Soffuso, introspettivo e di pari passo gravido di rabbia. Si lancia nei meandri oscuri dell'anima, in foreste innevate dove il tempo sembra essersi arrestato, e riesce a trovare spiragli di luce inaspettati. Drammatico, teatrale, a tratti orchestrale, ci consegna gli Agalloch ancora una volta ispirati che nel rilasciare la summa della loro arte trovano di nuovo modo per guardare avanti: la parte centrale di "Black Lake Nidstang", brano di diciassette minuti, si caratterizza con una nenia di ambient e psichedelia da favola, segno che solo chi sa veramente osare riesce veramente a creare, ad essere leader, e non un follower.


Ancora un passo avanti, ancora oltre, ancora grandi. Ancora Agalloc
h.

mercoledì 17 giugno 2009

Il caso di Thomas Crwaford - di Gregory Hoblit. Con Anthony Hopkins, Ryan Gosling. Produzione USA 2007 - 113 min.

Thriller classico, ma dalla struttura poco ortodossa. Rovesciata, per dire: il colpevole si scopre all'inizio del film ed esce di galera alla fine. Anche se vi ritorna bastardamente per un "altro reato". Thomas Crawford(Hopkins) uccide la moglie fedifraga, e mette in atto un piano luciferino per uscirne pulito dopo l'incriminazione. A reggergli il confronto è un giovane avvocato, Willy Beachum(Gosling), il quale si sta giocando la carriera per effetto del procedimento che ha deciso di seguire. Tutto qui? Più o meno. Pur con una struttura inversa che permette qualche colpo di scena ben studiato, il film si trascina stancamente verso un finale abbastanza scontato. Tensione rasente il nulla, ed interpretazione tipica da bamboccione hollywoodiano di Gosling il quale, già monoespressivo e faccia da pesce lesso, parte con uno svantaggio abissale in termini di carisma e bravura con il sempre eccellente Hopkins. Regia quasi descrittiva ed anonima fanno il resto e consegnano la pellicola alla schiera dei noir giudiziari dalla confezione perfetta, ma dalla sostanza alquanto incerta. Bella la cornice, di dubbio valore il quadro.

martedì 3 marzo 2009

Buried Inside - "Spoils Of Failure" - Relapse Records 2009.

Davvero un discone questo dei canadesi Buried Inside, quintetto di Ottawa che ricalca le orme dei padri pellegrini del post metal e quelle dei più progressisti Mastodon, ma con una lancinante decadenza ed un sofferto incedere che ricorda da molto vicino quello i Cult Of Luna. Introspettivo, a tratti riflessivo, ma sfrontato e vitaminico, "Spoils Of Failure" è un continuo crescendo di emozioni lanciato in un tritacarne che mulina a bassa velocità. Un coacervo di ferite che si aprono e si chiudono ossessivamente lasciando filtrare nel sangue la sofferrenza e le paure di un'esistenza tormentata dall'assenza di diritti, da politici bastardi, dalla corsa al successo a scapito di poveri cristi finiti all'obitorio, dalla scienza che sforna mostri inutili al solo scopo di monetizzare i suoi esperimenti mentre noi poveri coglioni ci lasciamo imbonire senza colpo ferire. Otto brani senza titolo che oltre a strappare lacrime e rabbia sul piano strumentale, ti sbattono sul muso liriche di una complessità sociologica al limite della letteratura tecnica, ma allo stesso modo accessibili. Ciniche e spaventosamente veritiere. Tra le più interessanti da una vita a questa parte, frutto di un evidente studio profondo di tematiche delicate e controverse. Sono le spoglie del fallimento, quelle di un'umanità prossima all'autodistruzione che i Buried Inside tracciano con fenomenale intensità attraverso la voce trafiggente di Nick Shaw e le melodie armonizzate delle chitarre, vere spine nel fianco di una condizione umorale in costante discesa che si assesta sui livelli di un grigio assai carico, alle soglie del nero della stessa marcata tonalità delle aquile in copertina che volteggiano pazientemente in attesa della fine. Disperato, malato, caustico. Lo specchio di questo tempo marcio e confuso. Travolgente, malinconico, un disco di un bellezza avvolgente destinato a risvegliare eserciti di anime intorpiditi della piattezza emotiva contemporanea.

lunedì 23 febbraio 2009

Tutti Gli Uomini del Re - di Steven Zaillian. Con Sean Penn, Kate Winslet, Jude Law, Anthony Hopkins. Colore, 140 min. Produzione Usa.

La storia di un venditore che diventa governatore dello stato della Louisiana negli anni 30. In breve, questa la trama del dramma diretto da Zaillian. Willie Stark, anche attivista politico, si accorge di essere pilotato durante i primi comizi elettorali grazie al giornalista Jack Burden(Law), il quale gli farà prendere coscienza prima, per poi diventare un suo fido collaboratore. Stark intraprende una campanga elettorale a modo suo avvicinandosi ai contadini, agli "zotici", ai cosiddetti ultimi, scagliondosi contro il mondo delle banche ed il potere che ne deriva. Nobili intenzioni, ma eletto governatore cadrà preda delle stesse accuse rivolte ai potenti, e soccomberà definitivamente a causa di una manovra oscura che lo porterà alla morte. Filmone classico che sullo sfondo tiene in pugno una sottotrama ancorchè tragica, si sviluppa senza particolari sussulti e non si eleva dalla sufficienza neanche con le interpretazioni di un cast dai nomi altisonanti. Il solo Penn ci mette tutto sè stesso, come al solito, ma il film fatica a districarsi da un processo narrativo alquanto algido, lontano dalla passione e dalla tensione che una dramma come questo dovrebbe evocare. Un compitino svolto a dovere, per carità, con una esposizione dei fatti esemplare ed una ambentazione assolutamente efficace, manca però l'elemento che ne farebbe una pellicola capace di distinguersi dalla moltitudine dei film di genere: la linearità. Incomprensibile la scelta di doppiare Penn con un ridicolo accento italo-americano alla pari dei mafiosi dei film di Scorsese e Coppola.

martedì 2 dicembre 2008

Il piacere e l'amore - di Nuri Bilge Ceylan. Con Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan, Nazan Kesal, Mehmet Eryilmaz. Produzione Turchia/Francia 2006.

Ancora solitudine. Ancora sentimenti che mutano ed inaridiscono. Il regista turco mette di nuovo l'accento sul disagio interiore questa volta conseguente ad un rapporto amoroso che si chiude, si riapre, si chiude di nuovo, ma con volontà alterna. Isa - docente di storia dell'arte - e Bahar - produttrice televisiva- si amano. Lei decide di lasciarlo durante le vacanze, ormai insofferente al rapporto. Si perdono completamente di vista al ritorno ad Istanbul. Lui, dopo aver adescato una vecchia fiamma con la quale si esibisce in un amplesso(condiviso) al limite dello stupro, va in cerca di lei. Ritrovata, sarà lui a lasciare lei questa volta. Lo scorrere del tempo e degli eventi segna inevitabilmente anche le passioni. Come il cambio delle stagioni condiziona la natura. Da qui il titolo originale "Iklimler", climi in turco, che dettano i tempi dell'amore vuoto compreso: tra le stagioni - in estate si chiude, in autunno si riaccende, in inverno si chiude ancora - manca la primavera. La stagione in cui sbocciano i fiori. Stagione in cui per Isa non sboccerà mai più nulla. Primi piani, lunghi silenzi, paesaggi innevati ed una Istanbul gelida e triste come da copione - come anche Pamuk straordinariamente descrive nel suo "Instanbul" - fanno da cornice ad un film che conferma l'abilità del regista balcanico nel descrivere la condizione dell'uomo moderno che affannosamente rincorre per avere e deliberatamente perde una volta ottenuta. Qualche forzatura ed una banale linearità della storia amorosa non tolgono nulla ad un film di valore, artigianale, sincero, corredato da una splendida fotografia.

martedì 4 novembre 2008

Tribe After Tribe - "M.O.A.B. - Stories From Deuteronomy". RodeoStar 2008.

Dopo sei anni di silenzio tornano i Tribe After Tribe e lo fanno come meglio non potevano. Capitanata dal carismatico Robbi Robb, la band sudafricana osa ancora di più rispetto al solito piazzando, probabilmente, uno dei dischi dell'anno. Certo il disco migliore della loro già intensa seppur povera(in fatto di titoli) discografia. "M.O.A.B.", acronimo dai significati più disparati(allo stesso tempo ricercati e non causali) - dalle note di presentazione del disco rappresenta il deserto di Moab dove Mosè e gli israeliti commisero crimini contro popolazioni locali dedite a credi pagani, alla "Mother Of All Battles" invocata da Saddam Hussein, alla risposta americana con la "Mother Of All Bombs", la "Massive Ordnance Airblast Bomb" - è un disco complesso ed allo stesso modo scorrevole che lascia con il fiato sospeso. Ispirato in parte dal Deuteronomio, dall'Antico Testamento, è un insieme di alternative rock, musica tribale, psichedelia, world music ed altro ancora. Un concept pacifista che abbraccia tutti i temi cari da sempre a Robb, impegnato lungamente fin dai primi passi contro l'apartheid nel suo paese. Diviso in passaggi drammatici ed altri rabbiosi, tra narrazioni e fughe etniche, "M.O.A.B." è un vero e proprio manifesto contro l'ipocrisia imperante dei potenti della terra. Una ricerca incessante che filtra e snellisce senza mezzi termini i mali che attanagliano la comunità globale, sbattuti in faccia senza colpo ferire: "Burning Bush" ne rappresenta l'emblema. Un lavoro intrigante che nelle sue tante sfaccettature risulta equilibrato, ma che riesce ad evocare lo spirito che lo attraversa con una forza espressiva con pochi eguali e che presenta analogie concettuali e strutturali con "Mabool" degli Orphaned Land. La stupenda chiusura con "Red Sky" e "World Drum" mette i brividi, mentre con "Holy City Warrior" t'innesta il seme della rivolta. Disco oltre sotto ogni punto divista, anche lì dove sembra eccessivo quando si fa comunque perdonare con la sincerità che lo contraddistingue. Storie che dal passato si riflettono nel presente e viceversa. L'umanità è destinata a commettere sempre gli stessi (o)errori. I Tribe After Tribe sanno come esorcizzarli.

sabato 27 settembre 2008

Anathema - "Hindisight" - Kscope 2008.

Bisogna ancora attendere per il nuovo degli Anathema perchè questo 'Hindsight' non è altro che la riproposizione di brani già editi in versione semi-acustica(con un inedito). Ma questo non fa del disco un lavoro che non merita attenzione. Anzi, conoscendo la vena umorale e la finezza negli arrangiamenti dei fratelli Cavanagh potreste già provare ad immaginare a cosa andrete incontro. Tinte e sfumature malinconiche amplificate dagli strumenti classici ed un'atmosfera da camera rendono brani noti per la loro alta carica emozionale anche migliori delle versione orginali. Come nel caso di "Flying", di "One Last Goodbye" e di "Fragile Dreams" che toccano ancora di più dentro, nel profondo, dove la voce di Vincent si abbassa ed allo tempo si fa ancora più eterea pronta a rimarcare la malinconica rassegnazione che impregna ogni composizione della band. Se per tutti i brani vale una riproposizione fedele rispetto alle versioni orginali, ma spogliate in buona parte dalla ritmica e dall'elettricità, "Are You There" è sorretta, invece, dalle chitarre acustiche con un soprendente tempo andante che cuce addosso alla canzone un vestito nuovo senza sfigurarne l'aspetto: un capolavoro dal respiro armonico incontrollato che scioglie il sangue nelle vene. Molto bello anche l'inedito, "Unchained(Tales Of The Unexpected)", anch'esso lanciato tra le spire delle corde dell'acustica che chiude un disco di cui se ne sentiva comunque il bisogno, pur se aggiunge poco alla straordinaria evoluzione cui gli Anathema si prestano disco dopo disco. E dopo questo 'Hindsight' chissà cos'altro ci riserveranno.